Necessità di un criterio pedagogico.
Ciò che fondamentalmente, secondo me, qualifica un insegnante e lo distingue, dal punto di vista professionale, dai suoi tantissimi colleghi sia nel bene, sia nel male, in qualunque ordine di scuola egli eserciti la propria professione, è il suo criterio pedagogico, ossia il metodo che adotta nell’insegnamento.
L’insegnante che non possiede un’idea chiara di come procedere nell’insegnamento, bisogna riconoscere che è un fallito nel proprio campo. Ma ciò sarebbe poca cosa se il suo fallimento si limitasse esclusivamente a danneggiare la sua persona con le brutte figure che è costretto a fare di continuo. Il guaio è invece che egli arreca danni enormi agli allievi che deve educare e formare, e alla stessa società nella quale tali allievi dovranno, prima o poi, operare con l’attività che eserciteranno.
La scuola infatti esplica, nell’ambito sociale, una funzione assai rilevante. E molte società nazionali dei giorni nostri sono afflitte da terribili crisi; ed alcune rischiano addirittura la completa dissoluzione proprio perché non hanno riconosciuto alla scuola il giusto peso che le spetta e non l’hanno, di conseguenza, organizzata in modo adeguato. Un esempio lampante di questo fenomeno è offerto purtroppo dal nostro Paese, che non è ancora riuscito a riformare la scuola a seconda delle sue esigenze sociali, ma che perciò non riesce ad uscire dalla tremenda crisi che lo attanaglia ormai da oltre quindici anni.
Il compito dell’insegnante, come facilmente si può constatare, è molto delicato, ed egli lo deve assolvere bene perché grava su di lui una grande responsabilità sociale, morale e politica. Se ciò spesso non avviene, non si deve attribuire la colpa sempre alla classe docente, bensì a contingenze di varia natura, quali: ad esempio, la carenza di strutture su cui operare, la deficienza di aggiornamento professionale dei docenti, ma soprattutto l’insussistenza di un preciso indirizzo culturale, politico e sociale che la scuola deve perseguire. In altre parole, se la scuola è chiamata a formare i cittadini di una società, deve anche trovare davanti a sè una certa chiarezza sul tipo di società a cui deve fornire i cittadini.
In una società carente di identità, la scuola non può che essere farraginosa, incerta e inconcludente. Questa situazione l’hanno ben compresa le società totalitarie, le quali, come la storia ci mostra ad ogni piè sospinto, si sono sempre date un tipo di scuola conforme alla loro struttura.
Se volessimo una conferma di ciò, non abbiamo certamente bisogno di allontanarci dalla nostra storia nazionale, in quanto il fascismo, appena si insediò al potere, tra le prime riforme che fece per suo uso e consumo, fu proprio quella della scuola, ben conscio del valido aiuto che gli avrebbe fornito. Ed una delle cause fondamentali, che dettero vita e nutrimento al terrorismo – i cui scempi sanguinari sono ancora davanti agli occhi di tutti -, è stato indubbiamente il dissesto della nostra scuola. I principali capi del terrorismo infatti non sono usciti né dai campi, né dalle fabbriche, bensì dalle università e dai licei, o dagli istituti della scuola media superiore in genere.
Conscio di quanto fosse gravoso il compito cui andavo incontro, quando nel ormai lontano 1964 cominciai la mia attività di insegnante, sentii immediatamente l’esigenza di avere un criterio pedagogico per orientarmi nell’esercizio della mia ardua professione. Ma come entrarne in possesso? Dove trovarlo? Sentii questo fatto come un problema da risolvere il più presto possibile. Dai pochi studi di pedagogia che avevo fatto all’università per conseguire la laurea, mi sembrava di poter capire che un metodo bello e costituito da adottare nell’insegnamento non esisteva. Semmai ogni educatore, nonostante le teorizzazioni che ne aveva fatto successivamente, aveva dovuto costruirselo da sé.
A molti parrà strano che io avessi potuto constatare già dai pochi studi pedagogici che avevo effettuato fino al 1964, che ogni educatore avesse la necessità, per esercitare con una certa diligenza la propria professione, di costruirsi lui un criterio pedagogico su cui basarsi. Eppure, fin da allora, io mi ero fatta questa convinzione e i successivi studi di pedagogia e gli anni di esperienza professionale hanno finito per rafforzarla sempre di più.
Ponendomi, tuttavia, il problema del metodo, dal momento che mi ero persuaso che non ne esisteva uno oggettivo a cui i vari educatori potessero fare riferimento, mi assillava la questione di come avrei potuto fare per costruire il mio metodo; quale sarebbe stato il terreno d’indagine, se pure esisteva, in cui mi sarei dovuto muovere. Pensai che dovevo studiare i vari metodi che la storia della pedagogia ci presenta, non certo per trasceglierne uno da applicare direttamente, bensì per fornirmi i lumi per un immediato orientamento anche se provvisorio. Senza voler negare gli indubbi aiuti che ricevetti da un tale studio, dovetti constatare il fallimento delle mie speranze. Insomma, provando ad applicare i metodi dei grandi pedagogisti della storia, i conti non mi tornavano. Sentivo che quelli non erano adeguati all’elaborazione della materia che mi stava davanti: ossia la formazione dei miei alunni non coincideva con quei modi di procedere. Se ci si pensa bene, ciò appare come la cosa più naturale di questo mondo, poiché i ragazzi che stavano davanti a me non erano gli stessi che stavano davanti a Pestalozzi, Froebel, Herbart e così via. Erano diversi non solo fisicamente ed intellettualmente, ma anche ambientalmente e storicamente giacché l’educatore, nel formare i propri educandi, non può prescindere né dall’ambiente in cui opera, nè dalla situazione storica in cui si trova a vivere. Gli alunni infatti non sono vasi che il maestro riempie a suo piacimento come e quando vuole; essi invece sono delle persone con proprie caratteristiche individuali di cui bisogna tenere conto, non solo per il rispetto che è dovuto alla dignità umana, ma anche per le reazioni imprevedibili che possono suscitare. Dunque, fin da allora ho capito che il terreno su cui mi dovevo muovere per costruirmi il metodo necessario all’esercizio della mia professione di insegnante, è la continua esperienza, e su questa via mi sono posto decisamente.
Il mio criterio si basa su una attenta osservazione dei giovani che debbo formare, sulla conoscenza dei loro problemi, delle loro situazioni familiari, ambientali e sociali, del loro carattere e delle difficoltà che incontrano tutti i santi giorni. Deriva da qui la mia tolleranza della loro mancanza di puntualità nell’osservare i precisi giorni in cui debbono preparare le interrogazioni di filosofia e di storia, nel consentire non solo, ma anzi nello stimolare, ogni sorta di discussione anche se non c’è diretta attinenza con le materie che insegno. Sono infatti convinto che il mio compito di professore di filosofia e di storia non debba consistere esclusivamente nel far sì che i giovani imparino a conoscere i filosofi o i fatti storici alla perfezione, bensì nell’insegnare loro, come debbono comportarsi nella vita, quali rapporti umani sono più convenienti da tenere, come debbono realizzarsi uomini tra gli uomini.
Con questo, tuttavia, non intendo sostenere che lo studio della storia e della pedagogia è cosa inutile; anzi, penso proprio il contrario. Studiare la storia della pedagogia significa non solo conoscere le esperienze che i pedagogisti che ci hanno preceduto hanno fatto, ma anche dialogare con loro; chiedere loro consigli per risolvere le nostre difficoltà, che tuttavia incontriamo non nelle nostre riflessioni a tavolino, sibbene nel pratico agire.
Dopo vent’anni di insegnamento, confesso con molta franchezza di non essermi ancora formulato delle regole precise da adottare nel mio insegnamento perché, così facendo, avrei posto delle pastoie alla mia attività di docente, la quale abbisogna di evolversi di continuo, adottando criteri opportuni ai problemi che ogni volta debbono essere risolti. Formulare delle regole precise vorrebbe dire aver raggiunto un approdo, essere arrivati a un punto in cui fermarsi; ma ciò significa anche considerare finita la propria attività. L’attività dell’educatore, come del resto tutte le attività umane, è sempre in cammino in quanto si evolve continuamente. Quando cessa di evolversi, essa è terminata, e quindi non sussiste più. Ha cessato di vivere. Non considero ancora terminata la mia attività di educatore, e perciò non intendo formulare regole precise per il suo esercizio. Forse lo farò quando andrò in pensione. Anzi, nemmeno allora, poiché, formulandone le regole, continuerei ad esercitarla e quindi a farla evolvere. La verità è che essa può avere uno sviluppo ma non una conclusione. Solo lo storico che vorrà ricostruirne lo sviluppo, potrà rintracciare le regole che vi hanno avuto luogo, perché per lui essa è qualcosa di compiuto che può essere tranquillamente sottoposta all’indagine. Ma nessuno può essere storico di se stesso in quanto, ricostruendo la propria storia, non fa altro che continuare la sua azione operativa, creando sempre qualcosa di nuovo ed escludendo, come conseguenza, la possibilità di realizzazione di quell’indagine che, nonostante la relatività umana a cui è soggetta, agisce in un terreno oggettivo: ossia la storia.
Fine prima parte
Saggio composto tra luglio e settembre del 1983