Indice articoli

I fini educativi che mi propongo.

Ogni educatore ha certamente il dovere di porsi dei fini da realizzare con la propria azione educativa. Io, lo confesso candidamente, educatore mi sento di essere, e quindi mi sono sempre posto dei fini precisi da conseguire con il mio lavoro, fiducioso costantemente di riuscire a raggiungerli. Non ho mai pensato che il mio compito fosse solo quello di istruire, bensì anche e soprattutto quello di formare.

 

I miei allievi debbono conoscere bene la storia e la filosofia, ma debbono applicarla nella vita. Non intendo forgiare nelle loro menti dei mondi artificiali ed astratti, ma riportarli anzi continuamente al mondo di ogni giorno, al banale quotidiano perché è proprio qui che si svolge la loro vita concreta di uomini. Di conseguenza, mi servo dei fatti storici e delle riflessioni dei filosofi per alimentare, in senso positivo, tutti quelli interessi diversi che la loro età di adolescenti fa sorgere e fiorire. Voglio che i miei allievi amino il sapere nella sua multiformità e complessità, convinto come sono che nessuno dei suoi vari rami sia più utile degli altri per cui possa accampare titolo di superiorità. Il saper però non deve essere finalizzato in se stesso, ma espletarsi nella forma dinamica e concreta. La cultura non deve costituire titolo di aristocraticità bensì servire ad elevare verso di lei gli incolti.

Ciò deve avvenire non con forzature autoritarie, sibbene suscitare adesioni spontanee ed amore per essa, in quanto se ne riconosca la benefica azione liberatrice dalla miseria morale e da ogni forma possibile di frustrazione. Perciò le persone colte hanno il dovere di uscire da quella torre d’avorio in cui la cultura, quando è concepita in senso puramente intellettuale, tende a chiuderle ed amalgamarsi alla massa degli incolti, facendo con essa un unico blocco compatto ed uniforme in modo tale che la massa degli incolti sia fatta uscire dallo stato di depressione in cui la pone l’ignoranza e guidata alla soluzione della coscienza delle proprie possibilità e del proprio valore, che la cultura soltanto è in grado di fornire quando diventa carne e sangue di chi la possiede. Il loro atteggiamento dovrà tenersi lontano dalla tracotanza e dalla superbia, le quali risultano sempre scostanti e disgregatrici ed assumere invece la semplicità, l’umiltà e la gentilezza che diffondono ovunque simpatia, aggregazione e rispetto della altrui dignità.


 

Un atteggiamento di tal genere implica l’abbandono totale dell’egoismo. Nasce da qui il mio sforzo costante per far trionfare, nel contrasto offerto dall’adolescenza, l’altruismo nei confronti dell’egoismo, l’esigenza del rispetto di noi stessi, ma anche degli altri. Io rammento sempre che la massima evangelica “non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te”, deve essere assunta come base del nostro comportamento nei rapporti con gli altri, poiché essa costituisce l’essenza di noi come esseri umani. E proprio perché siamo esseri umani, soggetti quindi a tutte le sofferenze e le limitazioni che ciò significa, ricordo che abbiamo il sacrosanto dovere di soccorrerci a vicenda; che nulla potremmo mai concludere senza la collaborazione dei nostri simili; che da questa esigenza è nata la società tra i primi uomini e che il progredire della civiltà deve accentuarla, se vogliamo che la nostra condizione umana divenga sempre più tale; che per questo motivo devono essere banditi dalla nostra convivenza la violenza e l’odio e albergati, come cose di pregio inestimabile, il dialogo, la persuasione e l’amore reciproco. Ricordo ancora che al disopra di noi c’è Dio, il Supremo Essere che ci accomuna in sé e che sempre ci ama anche quando noi non facciamo altrettanto per lui, sapendoci perdonare le disaffezioni purché siano dovute alla debolezza dei nostri sentimenti e non all’uso cattivo della nostra intelligenza. E ciò ci deve indurre ad essere sempre buoni con il nostro prossimo, giacché allora saremmo rispettosi della volontà di Dio, fonte di ogni nostro bene. Dio infatti chiama tutti in egual misura e si comporta con ciascuno di noi allo stesso modo, elargendoci cioè il suo amore infinito poiché infinta è la sua bontà. Se, a onor del vero, si da uno sguardo attento a quanto succede nel mondo ai diversi esseri umani, non sembrerebbe potersi sostenere o accreditare una tesi siffatta, che vuole cioè l’infinita bontà di Dio e l’equo comportamento con gli uomini. Anzi gli argomenti non mancano per affermare il contrario. Tutti i santi giorni ognuno di noi può constatare situazione ingiuste tra gli uomini. Ci sono tra loro i ricchi, detentori di tutte le comodità materiali, e capaci quindi di vivere sereni anche nello spirito, giacché fino a quando resteremo in vita mai lo spirito potrà separarsi del tutto dalla materia, e i poveri esposti ad ogni forma di sofferenza e di disagio, come malattie gravissime che potrebbero essere curate soltanto con un lieve miglioramento della nutrizione di chi ne è affetto, o altre non meno gravi che potrebbero essere evitate nella loro insorgenza se solamente si fosse data la possibilità a chi le ha contratte di osservare le più elementari norme igieniche. E tanti di questi individui, così innocentemente sofferenti, riconosciamolo pure, non si rassegnano ad accettare passivamente la loro condizione, del resto tanto dura da sopportare, per cui il loro volgersi a Dio non è ne sereno ne benevolo perché sentono di aver avuto da lui soltanto sventure. Così come non si rassegnano facilmente i portatori di handicap gravi quando guardano la stragrande maggioranza dei loro simili, i quali non portano la loro sofferenza, ma vivono in pieno la vita, fluendo delle svariate gioie che offre senza fare sforzo alcuno, mentre essi sono costretti per cause che non dipendono dalla loro volontà e che, per quanto si adoperino, non riusciranno mai a superare o ad eliminare, ad osservare impotenti quanto avviene nell’ambiente che li circonda. Eppure io rispondo a coloro che incolpano Dio dei mali del mondo che hanno torto a volgersi a Lui con ira poiché non ha alcuna colpa. La sua bontà infinita non avrebbe senso di esistere se egli fosse colpevole dei numerosi e terribili mali che affliggono il mondo. Ma si obbietta giustamente: “se Dio è autore delle cose, anche il male deve provenire da lui”. Egli infatti, creando l’universo, non h avuto alcun condizionamento poiché è onnipotente. A mio avviso, in questo punto il ragionamento che si fa su Dio, non regge. I due attributi, che la tradizione teologica gli conferisce quello della bontà infinita e quella potenza infinita non si conciliano tra loro in un'unica persona. Se si accetta l’insegnamento della tradizione teologica cristiana, secondo la quale Dio ha creato dal nulla ogni cosa, non c’è dubbio che egli debba essere anche autore del male. A questa serrata argomentazione non riesce a sottrarsi nemmeno la tesi di Sant’Agostino per cui il male non ha ragione esistenziale perché, in definitiva, si identifica con il nulla in quanto anche il nulla, per il fatto stesso che lo si vuole negare, è pur qualcosa, come osservava il monaco Fredegiso nell’opera De nihilo et tenebris [1]


La soluzione del problema, secondo il mio modesto parere, si trova nell’ammettere con un atto coraggioso di onestà intellettuale, che Dio è infinitamente buono ma di potenza limitata. Egli si duole dei mali del mondo e ne soffre profondamente, ma non può fare altro. Per tale ragione, noi uomini ci dobbiamo rivolgere a Dio sempre con benevolenza, consci che i motivi del nostro soffrire non risalgono a lui, bensì a qualche cosa che lui stesso non è in grado di dominare. Egli anzi è solidale con coloro che soffrono partecipando con tutto il suo amore per loro. Coloro che oppongono un Dio perfetto ed immune da ogni sofferenza, ogni potente autore di tutto il creato oltre che del bene, debbono riconoscerlo dunque anche fonte del male. Ma in tal caso, questo Dio non può che essere contraddittorio, in quanto per la sua infinta bontà, non può che essere esclusivamente fonte del bene. Ma per la sua infinita potenza è la causa prima e principale di tutto ciò che esiste ed avviene nel mondo e quindi anche dei cattivi eventi e delle azioni malvagie. Né, mi pare, ha molto senso far valere una legge compensativa, secondo la quale la sofferenza dei buoni e degli innocenti serve per la redenzione dei malvagi. Poiché questa teoria è diffusa nell’ambito del cristianesimo, il quale evidenzia l’individualità nella singolarità della persona che è un dato unico e irripetibile, non si capisce, seguendo il senso rigoroso della logica, come si possa accreditare una simile teoria. A me pare che una teoria siffatta sia adeguata non a giustificare l’infinita bontà di Dio bensì la sua abissale cattiveria, giacché punisce ingiustamente con la sofferenza i buoni che lo amano e viceversa premia con la gioia della salvezza coloro che lo detestano. Il che fa di Dio un essere crudele senza scusante, perché egli fa tutto questo senza il condizionamento di chicchessia, data la sua onnipotenza. Un tale Dio francamente mi fa inorridire. Egli non ama i buoni, anzi li detesta e gode dei tormenti che infligge loro.

Ma allora dove si pone la giustizia divina di fronte alla responsabilità umana? E’ un interrogativo che non trova risposta in una siffatta concezione di Dio. Io lo dico sempre ai giovani che un tale Dio non è alla portata degli animi semplici. Questo è un Dio che è stato costruito dai teologi che hanno mirato a rilevare più la sua maestosità, che la sua umiltà; più la sua severità, la sua bontà. Pascal avrebbe detto che questo è un Dio dell’intelletto piuttosto che un Dio del cuore. Ma se Dio è la fonte dell’amore che intercorre tra gli uomini e di quello che intercorre e se stesso, egli deve essere concepito non come un giudice, bensì come un padre. E come un padre partecipa alla sofferenza dei figli e si adopera per alleviarla o eliminarla del tutto, così Dio fa per gli uomini, che sono suoi figli, soccorrendoli per alleviare o eliminare le loro sofferenze, piangendo con loro quando ciò non è possibile. Sì, perché noi ci sentiamo vicini a Dio quando lo sentiamo e lo sappiamo vicino a noi nei momenti più drammatici ma anche nei momenti più belli della nostra vita. Proprio come avviene ad un padre affettuoso e buono che ci sta sempre accanto, pronto a rimproverarci o a complimentarci a secondo che le azioni che compiamo siano degne di rimprovero o di complimento.


 

Il sentimento per la divinità che in lei ci accomuna, mi porta spesso a discutere con gli allievi dell’appagamento spirituale che suscita in noi la contemplazione del bello. Il bello lo possiamo scorgere sia nella natura, ad esempio contemplando un paesaggio, sia in un opera d’arte creata dall’uomo ad esempio: contemplando una pittura, leggendo una poesia, ascoltando un brano di musica, ecc.. Se tuttavia dobbiamo spiegare scientificamente che cosa sia il bello, nonostante le diverse definizioni che i filosofi dell’arte, letterati e artisti in genere ne hanno dato, non risulta facile rispondere, mentre appare molto più facile la sua comprensione. Di fronte a ciò che esprime il bello, ci sentiamo estasiati per la commozione spirituale che ci suscita. Un sentimento di armonia si diffonde tra noi e l’oggetto bello che contempliamo o ascoltiamo. Il nostro mondo interno si fonde perfettamente con il mondo esterno sicché entra in noi l’universalità delle cose e degli spiriti, mentre nello stesso tempo e nello stesso modo noi entriamo in loro. Ma il sentimento del bello non ci porta soltanto alla passiva contemplazione, bensì anche alla più originale tra le azioni a quella di creare, mediante l’ausilio dell’immaginazione e della fantasia, le opere d’arte, alcune delle quali diventano capolavori imperituri che esercitano una propria influenza in ogni tempo nella collettività umana. Da qui nascono le mie discussioni con gli allievi sulla funzione dell’arte nella società, sul suo impegno o disimpegno nella soluzione dei problemi sociali, sulla sua libertà e autonomia dal potere politico e religioso, e da ciò che siamo soliti definire come morale. Io sostengo che l’arte, come del resto la politica, la morale, il diritto, l’economia, la religione, ecc. sia una componente della società, e, come tale, non può che essere in essa impegnata. C’è tuttavia chi sostiene che l’arte non assolve ad alcun compito specifico nell’ambito della società poiché essa si riduce ad un fatto puramente espressivo. La discussione è tutt’ora in corso e non ha dato luogo ne a vincitori ne a vinti e forse ciò non avverrà mai giacché sussistono argomenti validi in un terreno tanto ostile al dominio della ragione a sostegno dei due campi contrapposti.

L’interesse per la politica è sempre presente nelle mie lezioni, come può rilevarsi da quanto sono venuto esponendo fino a qui del mio procedimento nell’esercizio della professione. Non sono e non mi sento un uomo politico, ma so anche quanto peso abbia la politica in qualsiasi tipo di società. Perciò mi guardo bene dal fare a scuola politica spicciola, ma mi preoccupo di sviluppare negli allievi il senso della partecipazione alla politica, cercando di fare allignare in loro l’equità e la giustizia sociale. Insegno che debbono essere rispettate le idee di tutti; che le contese e i diverbi si risolvono con la discussione pacifica e non con la violenza; che qualsiasi problema va affrontato e risolto con il confronto delle posizioni reciproche; che la tolleranza e la pluralità delle opinioni rappresentano la base della società; che la cooperazione costituisce e favorisce lo sviluppo e la floridezza di ogni società che voglia essere definita civile. Ritengo mio dovere di chiarire la natura della democrazia e quella del totalitarismo. Spiego come nella prima sia tutto un popolo a prendere parte all’esercizio del potere, mentre nel secondo solo uno o un piccolo gruppo di persone gode di un tale privilegio. Invito gli allievi a rendersi conto con ponderazione della differenza che intercorre tra i due regimi e a non farsi ingannare dalle illusioni che il totalitarismo può suscitare. Nella società democratica i problemi si risolvono molto lentamente poiché implicano discussioni lunghe, minuziose e talvolta anche inutili. Hanno però il vantaggio di vedere partecipare tutti alla loro soluzione e di risultare conformi alle esigenze di ognuno. Nella società totalitaria i problemi vengono risolti con rapidità e immediatezza perché le discussioni non si fanno. Chi comanda ordina l’esecuzione di ciò che deve essere fatto e non ammette alcuna replica da parte di chi deve eseguire, ma non si preoccupa nemmeno di sapere se quanto ha fatto eseguire risponda o no agli interessi di coloro che stanno sotto di lui.

Ne consegue che, almeno secondo il mio punto di vista, i mali della società democratica, nonostante la loro macroscopica apparenza, sono di gran lunga inferiori a quelli della società totalitaria.

Fine quarta parte.

Saggio composto tra luglio e settembre del 1983.



Cfr: Patrologia Latina, 105, 751 in : Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, parte terza la Filosofia Scolastica, capitolo 1° Le origini della scolastica, paragrafo 172 La rinascenza carolingia, edizione Utet, Torino 1953.