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Il sentimento per la divinità che in lei ci accomuna, mi porta spesso a discutere con gli allievi dell’appagamento spirituale che suscita in noi la contemplazione del bello. Il bello lo possiamo scorgere sia nella natura, ad esempio contemplando un paesaggio, sia in un opera d’arte creata dall’uomo ad esempio: contemplando una pittura, leggendo una poesia, ascoltando un brano di musica, ecc.. Se tuttavia dobbiamo spiegare scientificamente che cosa sia il bello, nonostante le diverse definizioni che i filosofi dell’arte, letterati e artisti in genere ne hanno dato, non risulta facile rispondere, mentre appare molto più facile la sua comprensione. Di fronte a ciò che esprime il bello, ci sentiamo estasiati per la commozione spirituale che ci suscita. Un sentimento di armonia si diffonde tra noi e l’oggetto bello che contempliamo o ascoltiamo. Il nostro mondo interno si fonde perfettamente con il mondo esterno sicché entra in noi l’universalità delle cose e degli spiriti, mentre nello stesso tempo e nello stesso modo noi entriamo in loro. Ma il sentimento del bello non ci porta soltanto alla passiva contemplazione, bensì anche alla più originale tra le azioni a quella di creare, mediante l’ausilio dell’immaginazione e della fantasia, le opere d’arte, alcune delle quali diventano capolavori imperituri che esercitano una propria influenza in ogni tempo nella collettività umana. Da qui nascono le mie discussioni con gli allievi sulla funzione dell’arte nella società, sul suo impegno o disimpegno nella soluzione dei problemi sociali, sulla sua libertà e autonomia dal potere politico e religioso, e da ciò che siamo soliti definire come morale. Io sostengo che l’arte, come del resto la politica, la morale, il diritto, l’economia, la religione, ecc. sia una componente della società, e, come tale, non può che essere in essa impegnata. C’è tuttavia chi sostiene che l’arte non assolve ad alcun compito specifico nell’ambito della società poiché essa si riduce ad un fatto puramente espressivo. La discussione è tutt’ora in corso e non ha dato luogo ne a vincitori ne a vinti e forse ciò non avverrà mai giacché sussistono argomenti validi in un terreno tanto ostile al dominio della ragione a sostegno dei due campi contrapposti.

L’interesse per la politica è sempre presente nelle mie lezioni, come può rilevarsi da quanto sono venuto esponendo fino a qui del mio procedimento nell’esercizio della professione. Non sono e non mi sento un uomo politico, ma so anche quanto peso abbia la politica in qualsiasi tipo di società. Perciò mi guardo bene dal fare a scuola politica spicciola, ma mi preoccupo di sviluppare negli allievi il senso della partecipazione alla politica, cercando di fare allignare in loro l’equità e la giustizia sociale. Insegno che debbono essere rispettate le idee di tutti; che le contese e i diverbi si risolvono con la discussione pacifica e non con la violenza; che qualsiasi problema va affrontato e risolto con il confronto delle posizioni reciproche; che la tolleranza e la pluralità delle opinioni rappresentano la base della società; che la cooperazione costituisce e favorisce lo sviluppo e la floridezza di ogni società che voglia essere definita civile. Ritengo mio dovere di chiarire la natura della democrazia e quella del totalitarismo. Spiego come nella prima sia tutto un popolo a prendere parte all’esercizio del potere, mentre nel secondo solo uno o un piccolo gruppo di persone gode di un tale privilegio. Invito gli allievi a rendersi conto con ponderazione della differenza che intercorre tra i due regimi e a non farsi ingannare dalle illusioni che il totalitarismo può suscitare. Nella società democratica i problemi si risolvono molto lentamente poiché implicano discussioni lunghe, minuziose e talvolta anche inutili. Hanno però il vantaggio di vedere partecipare tutti alla loro soluzione e di risultare conformi alle esigenze di ognuno. Nella società totalitaria i problemi vengono risolti con rapidità e immediatezza perché le discussioni non si fanno. Chi comanda ordina l’esecuzione di ciò che deve essere fatto e non ammette alcuna replica da parte di chi deve eseguire, ma non si preoccupa nemmeno di sapere se quanto ha fatto eseguire risponda o no agli interessi di coloro che stanno sotto di lui.

Ne consegue che, almeno secondo il mio punto di vista, i mali della società democratica, nonostante la loro macroscopica apparenza, sono di gran lunga inferiori a quelli della società totalitaria.

Fine quarta parte.

Saggio composto tra luglio e settembre del 1983.



Cfr: Patrologia Latina, 105, 751 in : Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, parte terza la Filosofia Scolastica, capitolo 1° Le origini della scolastica, paragrafo 172 La rinascenza carolingia, edizione Utet, Torino 1953.