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Il soggetto e l’oggetto sono due cose distinte e differenti tra di loro, costituite in modo indipendente, ma sono anche sempre tra loro legate, quasi da non poter sussistere l’una senza l’altra, giacchè esse sono in se stesse quel che sono esclusivamente in forza della loro inscindibile relazione.

Eppure vi sono stati in passato, e tutt’oggi ve ne sono ancora, filosofie che hanno preteso di poter negare o l’una o l’altra, cadendo così in una macroscopica astrazione di natura metafisica che le ha portate fuori dalle forme più ovvie della realtà. Sono queste filosofie illustri, che hanno tenuto da padrone il campo della cultura, e talvolta hanno monopolizzato la vita di intere Nazioni nella sua totalità per periodi anche piuttosto lunghi. Si pensi all’Idealismo, che ha costituito il fondamento concettuale dello Stato fascista in Italia per oltre vent’anni.

Queste filosofie, che vanno dall’empirismo all’idealismo, dal materialismo allo spiritualismo, dall’anarchismo individualista al collettivismo globale, e tante altre meno illustri, non possono oggi essere più accettate perché unilaterali, esclusiviste e dogmatiche, non sono in grado di cogliere l’essenza vera del Reale, la quale è data dalla dialettica tra soggetto ed oggetto, tra unità e molteplicità, tra monismo e pluralismo, tra individuale e sociale, tra teorico e pratico, tra fisico e psichico, ecc..

La posizione di Kant.

Ben lo vide Kant quando pensò che tanto i giudizi sintetici a posteriori degli empiristi che i giudizi analitici dei razionalisti fossero incapaci di fondare la vera conoscenza, perciò ritenne di escogitare il giudizio sintetico a priori, onde fondere insieme quanto vi era di buono scientificamente nell’uno e nell’altro giudizio, perché la conoscenza vera risultasse fondata da una giusta sintesi. Kant ebbe il grande merito, nella sua ”rivoluzione copernicana”, di attribuire al soggetto il vero valore senza tuttavia disconoscere l’oggetto. Però ebbe anche il torto di creare, nell’ambito dell’oggettività, un dualismo insanabile distinguendo il fenomeno dal noumeno.


I critici del kantismo.

Ai critici di Kant questa aporia del suo pensiero parve cosa si grave da indurli a ritenere che la filosofia kantiana si fosse impigliata in una contraddizione che solo lo scetticismo poteva sanare (si veda l’Enesidemo di Schulze), o quanto meno che l’unico punto di vista da cui essa fosse possibile, sarebbe stato l’ammettere che l’Io penso a creare la realtà esterna.

A queste conclusioni era giunto Joseph Beck nel suo III° volume dell’Esposizione della filosofia trascendentale di Kant.

L’idealismo post-kantiano.

Kant non si riconobbe in questa posizione e protestò vivamente. Ma gli Idealisti erano convinti che l’unica strada che la filosofia potesse percorrere era quella da loro imboccata, e Fichte sostenne che l’Io fosse l’autore della realtà esterna, giacchè diversamente la sua esistenza non si sarebbe potuta giustificare.

Schelling criticò Fichte, sostenendo che la sua filosofia non garantiva l’esistenza autonoma della realtà esterna, in quanto essa risultava esclusivamente dal capriccio creativo dall’Io.

La realtà invece, secondo Schelling, sussiste per proprio conto ed è dall’Io totalmente indipendente. L’Io e il non-Io, il soggetto e l’oggetto non possono però essere concepiti come provenienti da sorgenti diverse perché, in tal caso, non si riuscirebbe a spiegare come siano in relazione l’uno con l’altro. Essi perciò devono avere un’origine comune, un comune fondamento, e questo deve essere l’Assoluto.

La mia critica a Schelling.

La filosofia di Schelling non è adeguata ad operare una distinzione reale tra soggetto ed oggetto, poiché quello che in essa veramente conta, non sono l’Io e il non-Io, il soggetto e l’oggetto, lo spirito e la natura, bensì l’Assoluto, il quale non è soltanto l’elemento primordiale da cui essi si generano, ma ciò che li costituisce in ogni momento della loro vita. Quando infatti Schelling tratta separatamente la Filosofia della Natura e la Filosofia dello Spirito, lo fa non per sviluppare due filosofie distinte, ma per ricostruire la storia dello Spirito, che è poi l’Assoluto, il quale, in definitiva, esprime l’identità e non la distinzione. La critica che Hegel gli muoveva nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito del 1807, cioè di non consentire alcun tipo di distinzione e di Essere: “come la notte buia in cui tutte le vacche appaiono nere”, era più che giusta.

La soluzione di Hegel.

Ma la soluzione che Hegel diede al problema non fu certo quella appropriata. Se nella filosofia di Schelling il soggetto e l’oggetto non trovavano una distinzione netta, in quella di Hegel il soggetto veniva addirittura annullato. Identificando pensiero ed essere, Hegel fa sussistere soltanto l’Idea, la quale diventa tutta la realtà nella sua totalità assoluta. La singolarità, che rappresenta la soggettività,  non ha una esistenza autonoma, ma è soltanto un momento particolare dell’evoluzione razionale dell’Idea stessa nel suo movimento dall’astratto al concreto. E vane risultano quindi le teorie dottrinali che leggiamo nel pensiero giovanile del grande Pensatore di Stoccarda, secondo il quale l’infinito e il finito, il soggetto e l’oggetto devono coesistere e non possono mai andare disgiunti. Purtroppo nel pensiero della maturità Hegel non ha sviluppato questa tematica. Anzi, se nel pensiero giovanile essa risulta solamente abbozzata, e conseguentemente è rimasta oscura, in quello della maturità viene totalmente dimenticata. Del resto, la stessa tripartizione in cui Hegel articola la propria filosofia: Logica, Filosofia della Natura e Filosofia dello Spirito, non poteva consentire la distinzione reale tra soggetto ed oggetto. Infatti la Logica, che concerne la soggettività dell’Idea (Idea in sé), viene separata dalla Filosofia dello Spirito, che concerne l’aspetto oggettivo dell’Idea (Idea in sé e per sé), dalla Filosofia della Natura, nella quale l’Idea vi è alienata da se stessa, perdendo la propria coscienza e divenendo Spirito inconscio, incapace di conoscenza, ma anche di essere conosciuto. Nel problema che sto trattando, la Filosofia della Natura hegeliana non serve che a porre in maggiore evidenza la Filosofia dello Spirito voluta da Hegel, con tutte le sue forze.

La critica di Kierkegaard.

La critica che Kierkegaard muove a questa filosofia, colpiva pienamente nel segno. Kierkegaard tacciava la filosofia hegeliana di astrattismo, poiché dimenticava che la vera realtà è costituita dal singolo e non dall’Idea. La singolarità è la categoria che fonda il Reale, giacché essa esprime la libertà, la possibilità, l’alternativa, la distinzione e l’irripetibilità che sono situazioni in cui soltanto il concreto esistere trova la sua manifestazione e il suo fondamento. In tal modo il singolo sarà bene che si rifugi in se stesso e si disinteressi dell’esteriorità, poiché la sua essenza la trova dentro e non fuori di sé.

Viene così affermato il soggettivismo in forma estrema, e Kierkegaard cade nell’errore opposto a quello di Hegel. Se Hegel, infatti, aveva avuto il torto di sacrificare l’esistenza del soggetto a quella dell’oggetto, Kierkegaard sacrifica, non certo con minore decisione e sicurezza, quella dell’oggetto per affermare la sola esistenza del soggetto. Sono posizioni estreme ed inconciliabili che portano i due grandi pensatori irrimediabilmente ad una astrazione metafisica senza uscita.

La tesi di Marx.

Con Marx queste posizioni estreme vengono superate. Egli infatti, sottraendo la posizione esistenziale dell’uomo all’intimismo della coscienza in cui l’Idealismo l’aveva riposta, viene a sostenere che l’uomo si realizza come essere concreto soltanto entrando in rapporto con gli altri uomini mediante il lavoro, dove si sviluppano e si attuano i rapporti di produzione.

Il lavoro e i rapporti di produzione sono dunque il mezzo oggettivo per cui gli individui si realizzano in maniera concreta. Né si può legittimamente accusare Marx di avere soppresso la soggettività a tutto vantaggio dell’oggettività, come talvolta si è fatto, illustrando la concezione materialistica della storia poiché, pur ammettendosi in quella concezione l’economia come struttura portante della società, non sono affatto negate le influenze delle sovrastrutture nella modificazione della società stessa. D’altro canto Marx, rovesciando la dialettica hegeliana, ha inteso descrivere l’uomo nel suo ambiente reale, dove il suo rapporto con l’oggettività della natura e con gli altri soggetti che ad essa si rapportano, è innegabile.


Il Positivismo e le filosofie successive.

Il Positivismo, riponendo l’essenza d’ogni cosa nei fatti che concepiva come accadimenti naturali, tenne conto solo dell’Essere dell’Oggetto, disinteressandosi del fatto che esso non avrebbe potuto avere alcun senso senza l’esistenza del Soggetto. Le correnti filosofiche che gli successero, non furono più felici nel cogliere la necessità dell’uno e dell’altro. Infatti le correnti di marca irrazionalistica, dal volontarismo all’intuizionismo, dal vitalismo al pragmatismo, dall’esistenzialismo al neoidealismo, posero in evidenza il valore soggettivo dell’azione senza curarsi per nulla di ciò che tale azione avrebbe dovuto ricevere. Per contro, l’empiriocriticismo, le varie correnti neopositiviste, la fenomenologia, la neoscolastica ed altre forme di spiritualismo non seppero fare di meglio che rivalutare l’oggetto, lasciando il soggetto totalmente in ombra.

Le tesi del problematicismo.

Il problematicismo si è mosso sulla via giusta. Concependo la realtà come problematica nella quale ogni forma di dogmatismo non può trovare posto alcuno, ha posto il soggetto e l’oggetto nella dovuta relazione, viventi entrambi di una vita scambievole, dove la prevalenza temporanea or dell’uno or dell’altro, dettata da circostanze del tutto particolari, non intacca la loro fondamentale tendenza all’equilibrio reciproco. Del resto, se guardiamo le cose con l’occhio disincantato della vita quotidiana, finiamo per dover riconoscere che la posizione filosofica del problematicismo è quella che meglio ha saputo interpretare il nostro vivere giornaliero.

Ciò non significa che il problematicismo sia una filosofia banale. Anzi essa è la vera filosofia concreta, giacchè la validità e la concretezza di una filosofia non va giudicata per i castelli metafisici che essa sa erigere costruendo serratissimi sistemi, bensì per le cose che sa dire e far scoprire ai comuni mortali della realtà in cui vivono ed operano svolgendovi il proprio ruolo.