E’ pregiudizio assai diffuso che la filosofia non abbia nulla a che fare con la vita. Essa è qualcosa di inutile la cui esistenza o non esistenza non porta nel mondo alcun mutamento. Tale pregiudizio è non solo profondamente falso, ma esige di essere fugato se si vuole che l’umanità nella sua interezza si elevi in una coscienza critica per cui sia consapevole di se stessa. Solo in tal modo infatti ogni uomo, purché non affetto da infermità mentali che ne annullino o ne limitino la capacità di intendere e di volere, sarà in grado di decidere autonomamente dei propri atti: sarà cioè veramente uomo giacché l’essenza dell’umanità consiste nel poter far uso liberamente delle proprie facoltà. Non esagero certamente se dico che soltanto la filosofia è la disciplina adeguata a realizzare ciò tra tutte le branche dello scibile umano.
Ma che cos’è la filosofia?
Darne una definizione precisa è praticamente impossibile poiché ogni filosofo ne ha fornito una propria. Al limite dell’esagerazione, ma senza sconfinare del tutto nell’assurdo, si potrebbe dire che ogni filosofo ne assume una per porla a base delle sue riflessioni. La definizione quindi, che cercherò di darne in questo scritto, pur non ritenendomi un vero filosofo bensì un modestissimo operaio della filosofia, non potrà essere che parziale.
Filosofia, secondo il mio punto di vista, significa riflessione. A prescindere dal significato etimologico per il quale vorrebbe dire amore della sapienza, derivando dai termini del greco antico “filìa” (uguale amore) e da “sofìa” (uguale sapienza). L’oggetto su cui riflette è l’essere in quanto essere in generale – cioè l’esistere nella sua genericità – e l’essere nei suoi aspetti particolari: ad esempio: l’esistere della natura, dell’uomo, di Dio ecc.. Da qui discendono i diversi problemi su cui indaga la filosofia: ad esempio il problema cosmologico, quello teologico, quello morale, quello estetico, quello ontologico e così via. Questi problemi, riguardando la generalità degli aspetti particolari del reale, vengono classificati anche come filosofie particolari. La filosofia, ben inteso, è sempre una, ma gli studiosi, rifacendosi al suo modo di riflettere universale sugli aspetti particolari dell’essere, identificano ognuno di questi in maniera del tutto impropria come la totalità del filosofare. Così, il problema morale diventa la filosofia morale, quello estetico la filosofia dell’arte, quello politico la filosofia della politica, e così dicasi per tutti gli aspetti particolari del reale su cui viene condotta la ricerca filosofica.
Ma la filosofia, così definita, non risulta una costruzione puramente intellettuale astratta da ogni minima concretezza e mille miglia lontana dalla realtà con cui i “poveri mortali” debbono fare inderogabilmente i conti ogni giorno della loro esistenza?
Nonostante le apparenze, la filosofia, come si può constatare da un attento esame su di essa, è tutt’altro che astratta ed avulsa dall’esistenza del genere umano. Non si sconfina certamente nell’illecito se si afferma che esprime la massima concretezza del nostro esistere, in quanto lo guida nella soluzione dei problemi più difficili che la sua essenza comporta. Per rendersi conto di ciò basta riflettere sul fatto che qualunque branca particolare dello scibile umano, quando deve giustificare se stessa e dare fondamento alla sua validità, è costretta ad uscire dalla particolarità in cui ha dovuto chiudersi per qualificarsi nella propria identità e ricorrere all’universalità nella quale soltanto prende concretamente piede e senso la sua vita di branca particolare.
La filosofia, a differenza della scienza, non può servirsi di esperimenti o di fatti ed oggetti tangibili per suffragare le proprie tesi, ma non per questo è meno concreta della scienza e meno di essa influisce nella vita degli uomini. Sono i modesti cultori della scienza che affermano che la loro disciplina opera veramente nella concretezza del reale mentre la filosofia ne è avulsa. Se, dando uno sguardo alla storia volessimo prendere nota di quante volte i governi totalitari abbiano proibito l’insegnamento della filosofia e della storia nelle scuole di quei paesi cui toccò la mala sorte di averli, onde i loro sudditi rimanessero totalmente proni ai loro voleri poiché privi della coscienza critica che la filosofia e la storia suscitano in chi le studia, dovremmo concludere che è la filosofia e non la scienza ad agire concretamente nella vita, tanto più che quei governi non si sono mai preoccupati di proibire la diffusione della scienza, ben consci che politicamente non li avrebbe mai impensieriti.
Eppure la scienza non può essere separata dalla filosofia, vivere lontano da essa. Scienza e filosofia collaborano insieme nel comprendere e spiegare la realtà. I campi in cui operano sono diversi, ma sono tra loro complementari. Compito della scienza è lo studio dei fatti empirici, l’analizzarli e l’ordinarli razionalmente. Più di questo non può fare. La filosofia indaga gli aspetti universali della realtà, cerca di spiegarne l’origine, tenta, talvolta con successo, talaltra senza riuscirvi, di determinarne i fini. La scienza non ha accesso agli aspetti universali dell’essere, la filosofia non può discendere nei suoi particolari. Quando pretende di farlo, cessa di essere se stessa, proprio come avviene alla scienza, quando pretende di andare oltre i fatti particolari. Ma proprio nella loro distinzione radicale si fonda la loro complementarietà. Agendo su campi diversi, contribuiscono a comprendere sempre meglio quel campo vasto e pieno di difficoltà in cui si svolge la vita dell’uomo. La filosofia non serve soltanto a comprendere la vita dell’uomo, bensì anche ad orientarla nel suo modo di svolgersi. Ciò vale per la vita degli uomini singoli e per quella delle collettività. Un individuo obbedisce ad una propria filosofia decidendo di vivere la sua vita in un modo anziché in un altro. Sceglierà di esercitare una certa professione, di assumere un certo comportamento verso se stesso e verso gli altri, sarà praticante o no in fatto di religione, risparmiatore o sprecone in fatto di economia, militerà oppure no in un partito politico, condurrà una vita appartata e tranquilla, preferirà invece una vita movimentata ed avventurosa, ecc. . La stessa cosa si può dire di una comunità. Prevarrà in essa un regime totalitario o un regime democratico, preferirà favorire l’iniziativa del singolo o quella dello Stato, praticherà il libero scambio o il protezionismo, istituirà marcate gerarchie tra i suoi componenti o tenderà a porli tutti sullo stesso piano, o perlomeno a far sì che i livelli siano piccolissimi.
Ebbene, tutto questo dipende esclusivamente dalla filosofia che il singolo o la comunità adottano nello svolgimento della loro vita. Gli ultimi quarant’anni di storia comprovano a sufficienza il mio discorso. Già dall’inizio degli anni Quaranta, quando ormai infuriava la Seconda guerra mondiale, i popoli colonialmente soggetti manifestavano l’esigenza di liberarsi di un tal giogo. Essi non si ribellavano apertamente disobbedendo alle potenze colonizzatrici e facendo magari causa con i loro nemici, bensì condizionando la loro obbedienza alla richiesta dell’indipendenza a guerra finita. Questo atteggiamento, assunto in un primo tempo da pochi popoli e in maniera pacifica a guerra finita, andò progressivamente diffondendosi non più in modo pacifico, anche perché le potenze colonizzatrici si mostrarono – giustamente dal loro punto di vista – adesso ostili, non essendo disposte a rinunciare alla miriade di grossi profitti che traevano dalle colonie. E’ noto infatti che, fin dal suo primo sorgere, il colonialismo non fu una esportazione di civiltà operata dagli Stati progrediti verso le popolazioni non ancora civilizzate, bensì l’attuazione di un esoso sfruttamento, che le potenze colonizzatrici praticavano a danno delle popolazioni colonizzate, per realizzare al loro interno, forme di poteri economici castali ed elitari e, all’estero, prestigio di potenza spesso anche sopraffattrice.
Gli imperi coloniali della Spagna e del Portogallo, costituitisi agli inizi del Cinquecento, offrono di ciò una prova lampante. I sacrifici e le lotte che i popoli colonizzati hanno dovuto sopportare e combattere sono stati duri ed aspri, ma il processo di decolonizzazione è risultato inarrestabile, ed oggi le colonie sono ormai inesistenti. Soltanto qualche arcipelago o qualche isola di piccola estensione o qualche località come, ad esempio, Gibilterra, ne fanno ancora parte, ma sono tutte sottoposte a contestazione, e non dureranno certamente a lungo.
C’è da chiedersi a che cosa sia dovuto questo irresistibile movimento di emancipazione dei popoli oppressi, che si è attuato e concretato nel giro di così breve tempo, mentre per secoli non si era verificato nulla di simile. Eppure la risposta è facile a fornirsi. L’istruzione nel nostro secolo si è diffusa in estensioni assai maggiori del nostro pianeta rispetto a quanto non è avvenuto nei secoli passati. Non solo si è diffusa estensivamente ma anche capillarmente, nel senso che anche nei paesi civilizzati essa ha subito un incremento e una diffusione maggiore rispetto al passato specie tra tutti gli strati della società: cosicché è accaduto che si sia preso coscienza da parte di molti – anzi di moltissimi – dei problemi che li riguardavano, e come individui, e come facenti parte di un gruppo sociale. Si dirà che questo non è un discorso che ha senso nell’ambito dei paesi che oggi siamo soliti indicare come sottosviluppati o in via di sviluppo, mentre assume tutta la pregnanza di significato nei paesi industrializzati. Tutto è relativo, ben si intende, giacché anche i cosìdetti paesi sviluppati hanno nel loro interno più di una plaga di sottosviluppo. Tuttavia, in linea di massima, è giusto dire che, mentre nei paesi sviluppati è quasi tutta la popolazione, che compone quei paesi, a prendere coscienza dei problemi che la riguardano, giacché in forza della diffusione dell’istruzione in tutti gli strati sociali, essa ha acquisito una maturazione e una coscienza sufficienti a comprenderli e a discuterli per indicare le soluzioni più valide; nei paesi in via di sviluppo invece soltanto una elite di persone fortunate prende coscienza dei problemi che riguardano sia loro come singoli individui, sia la società di cui fanno parte. I movimenti anticoloniali, dovuti certamente a una presa di coscienza dell’identità di quei popoli, dove si sono diffusi e che gli hanno portati ad emanciparsi dalla schiavitù imposta loro dalle potenze colonizzatrici, non sono dovuti al contributo di tutto un popolo, bensì all’iniziativa intellettuale, morale e persino fisica di pochi illuminati, i quali sono diventati i dirigenti di quei popoli e li hanno orientati – e tutt’ora li orientano – ad una concezione di vita diversa rispetto al passato.
La prassi diffusa della vita dalle potenze coloniali fra i popoli da loro colonizzati, era improntata all’obbedienza supina, all’alienazione dalla loro identità, alla non acquisizione di alcuna dignità o prestigio. Una simile concezione di vita non poteva provocare né senso di emancipazione, né desiderio di indipendenza tra quelle genti. I governanti delle potenze coloniali si appoggiarono costantemente sulle aristocrazie locali allo scopo di avere da esse l’aiuto necessario a tenere il popolo schiavizzato. Il gioco è loro riuscito per molto tempo. Ma non si riesce ad ottenere tutto ciò che si vuole.
Nell’ambito dell’agire umano ha spesso senso l’eterogenesi dei fini. Gli uomini infatti si propongono di ottenere un certo obbiettivo come conseguenza alle loro azioni, e invece esse ne sortiscono un altro magari impensato e tantomeno sperato. E’ accaduto così che i figli delle aristocrazie dei popoli colonizzati si sono recati a compiere gli studi nei paesi colonizzatori, ne hanno assimilato gli usi e i costumi, si sono impadroniti del loro modo intellettuale di procedere, di quello di governare e, perché no? di quello di dominare. Tornati in patria, hanno posto in essere gli artifici appresi non nei confronti dei popoli cui appartenevano - come sarebbe stato l’intento di chi glieli aveva insegnati - , bensì nei confronti dei dominatori. In tal modo, adoperando tutta la loro intelligenza, compiendo sacrifici immensi, pur senza realizzare una vera e propria democrazia nei loro paesi, sono riusciti ad infondere nella parte più avveduta dei loro popoli una concezione della vita del tutto opposta a quella inculcata dai colonizzatori, improntata alla coscienza di sé come popolo e come nazione, e ad organizzare quelle ribellioni popolari, che hanno finito per condurre quei popoli all’indipendenza nazionale.