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La filosofia, a differenza della scienza, non può servirsi di esperimenti o di fatti ed oggetti tangibili per suffragare le proprie tesi, ma non per questo è meno concreta della scienza e meno di essa influisce nella vita degli uomini. Sono i modesti cultori della scienza che affermano che la loro disciplina opera veramente nella concretezza del reale mentre la filosofia ne è avulsa. Se, dando uno sguardo alla storia volessimo prendere nota di quante volte i governi totalitari abbiano proibito l’insegnamento della filosofia e della storia nelle scuole di quei paesi cui toccò la mala sorte di averli, onde i loro sudditi rimanessero totalmente proni ai loro voleri poiché privi della coscienza critica che la filosofia e la storia suscitano in chi le studia, dovremmo concludere che è la filosofia e non la scienza ad agire concretamente nella vita, tanto più che quei governi non si sono mai preoccupati di proibire la diffusione della scienza, ben consci che politicamente non li avrebbe mai impensieriti.

Eppure la scienza non può essere separata dalla filosofia, vivere lontano da essa. Scienza e filosofia collaborano insieme nel comprendere e spiegare la realtà. I campi in cui operano sono diversi, ma sono tra loro complementari. Compito della scienza è lo studio dei fatti empirici, l’analizzarli e l’ordinarli razionalmente. Più di questo non può fare. La filosofia indaga gli aspetti universali della realtà, cerca di spiegarne l’origine, tenta, talvolta con successo, talaltra senza riuscirvi, di determinarne i fini. La scienza non ha accesso agli aspetti universali dell’essere, la filosofia non può discendere nei suoi particolari. Quando pretende di farlo, cessa di essere se stessa, proprio come avviene alla scienza, quando pretende di andare oltre i fatti particolari. Ma proprio nella loro distinzione radicale si fonda la loro complementarietà. Agendo su campi diversi, contribuiscono a comprendere sempre meglio quel campo vasto e pieno di difficoltà in cui si svolge la vita dell’uomo. La filosofia non serve soltanto a comprendere la vita dell’uomo, bensì anche ad orientarla nel suo modo di svolgersi. Ciò vale per la vita degli uomini singoli e per quella delle collettività. Un individuo obbedisce ad una propria filosofia decidendo di vivere la sua vita in un modo anziché in un altro. Sceglierà di esercitare una certa professione, di assumere un certo comportamento verso se stesso e verso gli altri, sarà praticante o no in fatto di religione, risparmiatore o sprecone in fatto di economia, militerà oppure no in un partito politico, condurrà una vita appartata e tranquilla, preferirà invece una vita movimentata ed avventurosa, ecc. . La stessa cosa si può dire di una comunità. Prevarrà in essa un regime totalitario o un regime democratico, preferirà favorire l’iniziativa del singolo o quella dello Stato, praticherà il libero scambio o il protezionismo, istituirà marcate gerarchie tra i suoi componenti o tenderà a porli tutti sullo stesso piano, o perlomeno a far sì che i livelli siano piccolissimi.

Ebbene, tutto questo dipende esclusivamente dalla filosofia che il singolo o la comunità adottano nello svolgimento della loro vita. Gli ultimi quarant’anni di storia comprovano a sufficienza il mio discorso. Già dall’inizio degli anni Quaranta, quando ormai infuriava la Seconda guerra mondiale, i popoli colonialmente soggetti manifestavano l’esigenza di liberarsi di un tal giogo. Essi non si ribellavano apertamente disobbedendo alle potenze colonizzatrici e facendo magari causa con i loro nemici, bensì condizionando la loro obbedienza alla richiesta dell’indipendenza a guerra finita. Questo atteggiamento, assunto in un primo tempo da pochi popoli e in maniera pacifica a guerra finita, andò progressivamente diffondendosi non più in modo pacifico, anche perché le potenze colonizzatrici si mostrarono – giustamente dal loro punto di vista – adesso ostili, non essendo disposte a rinunciare alla miriade di grossi profitti che traevano dalle colonie. E’ noto infatti che, fin dal suo primo sorgere, il colonialismo non fu una esportazione di civiltà operata dagli Stati progrediti verso le popolazioni non ancora civilizzate, bensì l’attuazione di un esoso sfruttamento, che le potenze colonizzatrici praticavano a danno delle popolazioni colonizzate, per realizzare al loro interno, forme di poteri economici castali ed elitari e, all’estero, prestigio di potenza spesso anche sopraffattrice.