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La giusta via per l’individuazione del modo di concepire i valori prende l’avvio, dunque, solo dal momento in cui Kant concepisce la sintesi a priori; e soltanto da quel momento che di valori si può veramente parlare, perché l’uomo è veramente posto nella condizione di poter pronunciare il proprio giudizio, e i valori non possono che scaturire dal giudizio dell’uomo in quando sono ad esso relativi.

Il valore è dovuto ad una reazione della coscienza umana ad un dato di fatto. Tale reazione va oltre il puro fatto. Lo trasforma imponendogli una qualificazione, valutandolo positivamente o negativamente, apprezzandolo o disprezzandolo. Il valore implica una scelta da parte della volontà umana. Perciò esso non si può realizzare senza la libertà. Allora si dovrà dire che il valore dipende esclusivamente dalla soggettività di colui che giudica. In parte si in parte no. Innanzitutto bisogna ricordare che, oltre ai giudizi di valore esistono anche i giudizi di fatto. Un giudizio storico, per esempio, è sempre un giudizio di fatto perché esprime semplicemente un atto conoscitivo senza alcuna valutazione. Questo avviene per un racconto che si fa ad un amico di un avvenimento a cui si è assistito, o per una testimonianza che si reca in tribunale quando ci viene richiesto di portare il nostro contributo alla giustizia su qualche situazione scabrosa di cui siamo a conoscenza. In tutti questi casi noi siamo dei moderatori che riferiscono ciò che sanno senza pronunciarsi al riguardo. La nostra partecipazione ai fatti si è limitata ad una presa d’atto dell’accaduto e nulla più. Ben altra cosa è un giudizio di valore. Qui il fatto ci coinvolge in prima persona. Noi ci sentiamo in dovere di intervenire di fronte al fatto; di esprimere il nostro apprezzamento o il nostro biasimo a riguardo. Il nostro intervento ha chiaramente una diretta influenza sul fatto. Il fatto, a causa del nostro intervento, non rimane più quello che era ma subisce una modifica nella direzione che il nostro intervento gli ha impresso. Non c’è dubbio quindi che il giudizio di valore non contenga una marcata impronta del soggetto che lo esprime. Ciò non toglie però che la soggettività non debba fare i conti con l’oggettività. D’accordo che, quando pronunciamo un giudizio di valore su un fatto, il fatto viene modificato nella direzione voluta dal nostro giudizio. Ma ciò non significa che il fatto venga superato o annullato dal giudizio. Il fatto fa parte dell’aspetto oggettivo del reale, e, di conseguenza, non è mai riducibile alla soggettività. Di questo ha dovuto accorgersi lo stesso Fichte –e con lui tutti coloro che hanno preteso di seguirne pedissequamente la dottrina - che ha affermato che l’oggetto altro non era che una creazione del soggetto. Infatti, l’Io che infinito, libero ed incondizionato, onde potersi affermare come tale, è costretto a porre di fronte a se il non-Io, il quale lo finitizza e lo condiziona. Quindi si formano i vari io empirici, a cui si contrappongono altrettanti non-io empirici. Ma c’è di più. I vari io empirici, che hanno come caratteristica di essere morali, intendono tornare all’io originale, che è l’ideale che si prefiggono di raggiungere. Ma per potersi muovere in tale direzione, dovranno superare il non-Io che sta loro di fronte. Una volta che lo abbiano superato, questi si pone di nuovo davanti a loro, ripetendo il processo all’infinito.

Fichte aveva pensato di ovviare all’aporia prodotta dalla cosa in sé di Kant, eliminando la cosa in sé, la quale nel pensiero di Kant costituisce il fondamento della realtà esterna data dai fenomeni, con il sostenere che la realtà esterna esisteva solo perché veniva posta dall’Io. Riteneva con ciò di aver reso onnipotente la soggettività, poiché l’oggettività non era che una sua creazione. Ma, come si è visto poco sopra, ogni suo sforzo è risultato vano poiché l’Io, pur essendosi auto-posto, non ha potuto essere tale se non in forza del non Io, che gli stava di fronte. E non è vero che il non-Io è frutto di una creazione spontanea dell’Io. E’ vero invece che l’Io è stato obbligato a porre il non Io, perché altrimenti egli stesso non sarebbe potuto esistere. Allo stesso modo non trova giustificazione la morale fichtiana se i vari io empirici non hanno davanti a loro altrettanti non-io empirici da superare in una ripetenza infinita.

Una volta che si è dimostrato che il fatto è una realtà che ha una sussistenza sua propria, la quale mai la coscienza del soggetto potrà incorporare in se stessa e tantomeno dargli l’esistenza, come aveva ritenuto Fichte e i suoi più stretti seguaci, è necessario fare i conti con esso se si vuole trattare correttamente la questione dei valori.