Una volta appurato che i fatti e le idee non possono esistere nella concretezza della realtà se non in correlazione tra loro, è necessario determinare l’influenza reciproca che intercorre tra gli uni e le altre.
Innanzitutto va precisato che la correlazione in cui fatti e idee si pongono, è dinamica. Ciò significa che è soggetta ad una infinita varietà di mutamenti sotto i più svariati punti di vista, che vanno dalla qualità alla quantità, dalla spazialità alla temporalità, ecc. . Occorre inoltre sottolineare che quanto più sono forti i fatti, tanto più sono deboli le idee; e viceversa, nella determinazione e caratterizzazione degli eventi.
A far sorgere la rivoluzione in Francia nel 1789 e a stabilire il cammino tortuoso e bruciante fu, a mio avviso, - nonostante l’opinione contraria di una grande schiera di storici –, la prevalenza delle idee sui fatti. Esaminando la situazione economica, sociale e politica della Francia della seconda metà del secolo XVIII, gli storici constatano che non era peggiore di quella di altri Stati europei; che anzi di alcuni era decisamente migliore. Infatti in Francia la nobiltà e l’alto clero – il basso clero viveva una condizione assai misera - pur godendo in modo ampio e soddisfatto delle situazioni di privilegio che l’impronta feudale dell’Ancien Régime aveva loro concesso, non erano più tiranni che altrove verso le classi sociali subalterne. Inoltre la borghesia, con i suoi intensi traffici commerciali e le sue floride imprenditorie agricole ed industriali, era tra le più ricche d’Europa così come tra i più sviluppati d’Europa era l’artigianato. Stando ai fatti, dunque, la situazione della Francia non era la più ideale perché scoppiasse proprio lì quella rivoluzione che doveva cambiare in tempi successivi radicalmente il modo di vivere dell’umanità in tutti i Paesi civili.
Ma perché questa grande rivoluzione scoppiò in Francia e non altrove? Ritengo di dover rispondere a questo interrogativo, facendo un breve esame della situazione culturale che raggiunse la Francia nel secolo XVIII con l’Illuminismo.
L’Illuminismo è un movimento di pensiero e di cultura assai complesso, che travalicò il campo prettamente intellettuale per diffondersi in tutti (o quasi) gli altri campi della vita degli uomini. È difficile stabilire dove esattamente sia sorto. Esso, infatti, deriva dalle dottrine filosofiche e scientifiche che si svilupparono in Inghilterra e che, a partire da Francesco Bacone, attraverso Hobbes, Locke, Newton e i Moralisti, arrivarono fino ai Deisti. Non di meno vi contribuirono, tuttavia, le dottrine di Cartesio, Spinoza, Leibniz e i Giusnaturalisti, Galilei e Pascal. Ma a parte le origini, non c’è dubbio che l’Illuminismo abbia avuto in Francia l’ambiente più favorevole per il suo sviluppo, dove ha raggiunto il culmine della sua maturità. Da qui si espanderà poi in tutti i Paesi europei, pur non producendo in essi gli stessi effetti che era riuscito a sortire in Francia, che sfociò nella grande Rivoluzione.
La Rivoluzione francese attuò, tra il 1789 e il colpo di Stato del 18 brumaio (9 Novembre) del 1799, che doveva portare Napoleone Bonaparte al Consolato e all’Impero, in prassi politica tutto ciò che l’Illuminismo aveva concepito e delineato in fase teorica. Nel giro di quei dieci anni la Francia passò dalla monarchia assoluta di diritto divino alla monarchia costituzionale, dalla repubblica moderata dei girondini a quella radicale dei giacobini e di Robespierre, in cui emerse come sovrano il grande terrore, a quella borghese del direttorio che ebbe vita con la Costituzione termidoriana. Ebbene, tutti gli aspetti politici, sociali, economici, culturali, morali e religiosi che emersero e vissero durante la rivoluzione, fu l’Illuminismo francese a concepirli e a farli nascere. Così vediamo come l’opera di Bayle produsse un cambiamento radicale della società francese. Il clero e la nobiltà debbono, secondo Bayle, perdere i privilegi di cui godono. Deve essere realizzata la tolleranza più completa in campo religioso, la cultura deve essere lasciata libera in tutte le sue manifestazioni. Le stesse critiche rivolgeva alla società francese Montesquieu nelle Lettere persiane indicava, come modello di cambiamento, la società inglese dell’epoca. Sulla scia di Locke e di quanto era avvenuto in Inghilterra con la Rivoluzione del 1688, prospettava l’esigenza che anche in Francia si realizzasse una monarchia costituzionale e delineava, a sua garanzia, la divisione dei poteri in legislativo, esecutivo e giudiziario. Voltaire, con la sua abilità di polemista, infliggeva colpi mortali alle principali concezioni su cui si reggeva la società del suo tempo. Così, rivisitando le opere di Bayle, e ispirandosi alla situazione socio-politica dell’Inghilterra di allora, metteva in forse la concezione della monarchia assoluta per diritto divino; affermava la necessità della totale tolleranza in campo religioso, sebbene non abbia mai negato l’esistenza di Dio e approvato l’ateismo; criticava a fondo la concezione leibniziana dell’ottimismo prospettato nella Teodicea; auspicava una morale meno conformista e impostava una concezione moderna della storia. I materialisti, facendo derivare tutte le facoltà dell’uomo dai principi attivi insiti nella materia, giungevano a sostenere un’etica utilitarista e una concezione libertaria propria dell’uomo giacché egli, avendo la volontà strettamente condizionata dal cervello di cui, anzi, essa non è che una modificazione, non è responsabile della sua condotta.
Ma il passo più significativo l’Illuminismo lo fece con l’opera di Rousseau. Nel Discorso sulle scienze e sulle arti, egli sostiene che le scienze e le arti non hanno affatto contribuito al progresso dell’uomo, ma che anzi lo hanno condotto alla corruzione e al vizio, facendogli perdere quella bontà e quella integrità originarie che egli aveva quando uscì dalle mani del creatore. Nel Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza tra gli uomini, attribuisce l’origine di tutti i mali sociali alla proprietà privata.
Da quando un individuo – egli scrive- dopo aver recinto un campicello, disse :”questo è mio” cominciarono tutti i mali della società.
Da allora la disuguaglianza tra gli uomini divenne un fatto incontrovertibile. E ciò, a parere di Rousseau e di tutti gli illuministi, è una gravissima cosa in quanto viene ad essere violato quel principio naturale secondo cui gli uomini, dotati tutti della medesima ragione, non possono che essere uguali tra loro. Nel Contratto sociale, Rousseau, mentre da un lato prospetta la necessità che ogni individuo viva nella società e si uniformi strettamente ad essa, obbedendo incondizionatamente alle regole che stabilisce, dall’altro, si fa strenuo sostenitore della libertà del singolo. Il singolo, infatti, vive in società al solo scopo di salvaguardare la libertà propria. Bisogna istituire il principio, sostiene Rousseau, per cui ogni singolo individuo, obbedendo alla volontà generale, della quale la società è espressione, non obbedisca che a se stesso. Sempre in quest’opera egli enuncia, in maniera irrefutabile, il principio su cui si fonda la democrazia. I governanti sono deputati al loro ufficio dal popolo e ad esso soltanto devono rispondere delle loro azioni di governo. Quando ciò non facessero, essi verrebbero meno al compito per cui sono stati eletti, e il popolo ha la facoltà e il dovere di sostituirli. Nell’Emilio, Rousseau espone i principi mediante i quali l’individuo deve essere educato. Essi danno luogo ad una educazione che si attua in forma negativa. Il maestro non dovrà mai costringere Emilio a fare quanto egli prescrive, ma lasciare che il ragazzo faccia tutto da sè, di modo che la sua formazione si compia con assoluta spontaneità. Tutt’al più potrà assumere alcune iniziative per creare determinate condizioni che inducano l’allievo a servirsene per adempiere a certi compiti, che la sua educazione comportano.
Come ho detto poco più sopra, i diversi aspetti del pensiero politico illuminista trovarono pratica attuazione nei vari risvolti della Rivoluzione francese tra 1789 e il 1799, quando Napoleone, ascendendo al Consolato, ne decretò la fine. La meta a cui essa approdò fu l’instaurazione del dominio politico della borghesia, che era poi lo scopo che la filosofia dell’Illuminismo aveva stabilito di raggiungere.
Lo scopo che il pensiero illuminista raggiunse con la Rivoluzione francese, mi porta a dire che esso non fu costituito solamente da idee, ma che anche i fatti si fecero sentire nel determinarlo. Il pensiero non operò esclusivamente nell’astratto, ma tenne conto, nel formulare le sue concezioni, della situazione storica in cui venne a trovarsi. La borghesia francese, che era potentissima in campo economico, non si rassegnava ad essere esclusa dall’esercizio del potere politico, il quale è quello che attribuisce il vero prestigio sociale. In questa funzione i pensatori francesi dell’Illuminismo si adoperarono a dimostrare l’infondatezza legale dei privilegi del clero e della nobiltà, e di quella concezione che voleva la monarchia essere assoluta per diritto divino. Bisogna però aggiungere che la borghesia poté mobilitare i pensatori per i suoi fini, in quanto l’Ancien Régime aveva prodotto condizioni di tale disagio che oggettivamente avevano sorpassato ogni limite di sopportabilità da parte della comunità sociale. Luigi XIV, allo scopo di esautorare dalle prerogative politiche la nobiltà ed accentrare nelle sue mani tutto il potere, l’aveva rinchiusa in quella gabbia d’oro, che fu la reggia di Versailles, soddisfacendone la vana gloria con laute prebende e divertimenti d’ogni genere, che incidevano seriamente nelle finanze dello Stato. Per soddisfare poi la sua continua sete di gloria, che altro non era che mania di grandezza, aveva condotto mezzo secolo di guerre contro tutta l’Europa, lasciando alla sua morte la Francia economicamente stremata, nonostante l’abilità del ministro Colbert nell’amministrare le finanze del Paese. La crisi della Francia era già così grave, mentre Luigi XIV era ancora in vita, da indurre Fénelon a dirigere al re nel 1695 una lettera aperta per invitarlo a porvi rimedio il più presto possibile. Fénelon rammentava al re di aver pensato fino ad allora solo alla sua gloria, mentre la maggioranza del popolo moriva di fame, costretta per sopravvivere a nutrirsi di erbe e di ghiande. Ma Luigi non si preoccupò delle esortazioni Fénelon, e finché visse, non mutò atteggiamento.
Non miglior sorte toccò alla Francia con Luigi XV. Questi si disinteressò completamente dei suoi compiti di re e affidò l’esercizio del governo a ministri inetti e corrotti, dominati e guidati dai capricci delle sue amanti di cui le meno peggiori furono Madame De Pompadour e Madame Du Barry. I turbinii, sotto il governo di Luigi XV, si addensavano sulla Francia sempre più minacciosi; ma egli poco se ne curò. E può anche darsi che non sia del tutto leggendaria la frase che gli venne attribuita : “dopo di me venga pure il diluvio”. Se pure non l’ha mai pronunciata, essa risulta più che mai conforme al suo modo di governare.
Luigi XVI ereditò dal suo predecessore una situazione molto difficile. Le finanze dello Stato erano in totale dissesto. La nobiltà, approfittando della debolezza del potere regio, aveva ripreso a comandare, riacquistando pienamente tutte quelle prerogative politiche, che aveva perduto con Luigi XIV. La borghesia era in continuo fermento, sempre alla ricerca della buona occasione che le consentisse di trasformare la sua potenza economica in potenza politica. Le masse diseredate, costituite da contadini, braccianti, bottegai e piccoli artigiani, davano luogo a sollevazioni frequenti nelle diverse parti della Francia e vana risultava la ferocia delle repressioni. Il clero e i nobili, che detenevano quasi tutte le terre del Paese e dovevano quindi pagare le tasse, mediante le quali le finanze della Nazione dovevano essere risanate, si opponevano caparbiamente a che ciò avvenisse, volendo conservare intatto il privilegio che poneva loro nelle condizioni di non pagarle. Così stanno le cose, i vari ceti sociali aspettavano la salvezza dalla convocazione degli Stati Generali, certi che tale convocazione avrebbe volto le cose a proprio favore. L’ultima volta che gli Stati Generali erano stati convocati fu nel 1614 ad opera di Maria Dè Medici reggente per conto di Luigi XIII. Allora gli Stati Generali avevano assolto docilmente il compito per conto di chi li aveva convocati. Ma ora non fu così. Infatti la loro riunione coincise di fatto con lo scoppio della Rivoluzione. Facendo un attento raffronto della situazione storica del 1614 con quella del 1789, non ci stupiamo certamente che ciò sia avvenuto.
I deputati che si riunirono a Versailles il 5 Maggio del 1789 portando con sé migliaia di Cahiers de doléances, che documentavano la tetra miseria della popolazione delle più disparate parti della Francia, avevano una forma mentis ben diversa da quelli che si erano riuniti nel 1614. Essi conoscevano molto bene le dottrine che i filosofi dell’Illuminismo avevano elaborato e i cambiamenti di regime e di società che quelle auspicavano. Sapevano che la monarchia assoluta per diritto divino non aveva un fondamento legittimo; che i privilegi del clero e della nobiltà erano un sopruso; che le tasse dovevano essere pagate da coloro che detenevano le ricchezze; che tutti gli uomini, dotati della medesima ragione, avevano gli stessi inalienabili diritti e che erano uguali davanti alla legge. Con simili dottrine nella mente, è chiaro che non avrebbero mai potuto accettare le imposizioni del re e dei ceti privilegiati e, conoscendo benissimo in teoria ciò che dovevano fare per mutare le situazioni di fatto che stavano davanti ai loro occhi, diedero corso alla Rivoluzione per operare in esse quei mutamenti radicali già delineati tempo innanzi dai filosofi.